A proposito di merito*
di Bruno Trentin *
Ecco il testo completo dell’ultimo articolo
scritto da Bruno Trentin per l’Unità. Un’analisi storica e filosofica del
concetto di merito.
La meritocrazia come criterio di selezione degli
individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del
centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio
Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei
bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la
legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un
caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un
politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.
Era stata respinta come una sostituzione della
formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di
riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione
alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con
rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione
specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano
come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle
imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non
solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre
avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il
potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di
ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare»,
valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della
fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel
contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale.
Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare
ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di
«merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di
riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E,
soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la
struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho
scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando
questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa
mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di
promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una
divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la
funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di
lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.
Un sistema di inquadramento e di organizzazione
del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione
nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito
o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle
assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di
sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una
vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6
mesi di premio.
È questa concezione del merito, della
meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di
un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici
nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla
grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della
sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua
approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.
Ma quello che è più interessante osservare è
come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia
dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe
sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia
accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del
Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del
manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia
del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento
finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in
termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.
A questa nuova trasformazione (e qualche volta
degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna
riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a
partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un
mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel
quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi,
una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un
rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di
una incomprensibile meritocrazia.
Non è casuale, del resto, che, di questi tempi,
il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un
punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle
organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.
Le stesse osservazioni si possono fare per i
«bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che
prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa
anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy
opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i
desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la
selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non
fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla
pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione
del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti
universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno
stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la
stessa nazione di democrazia.
Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può
sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il
grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società
moderna.
E quello che sorprende è che la cultura della
meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il
pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del
centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del
liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre
in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più
noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a
Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di
selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non
per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei
saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere,
introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della
società contemporanea.
La «capability» di Amartya Sen non comporta
soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che
deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e
regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non
è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se
stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con
una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione -
in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di
una ideologia autoritaria.
Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro
di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche
del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come
condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di
libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra,
finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto
costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e
nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto,
per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona,
a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non
solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur
giusto partire).
Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato
questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di
rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche
un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito
aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile,
dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della
conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07
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