Le idee
Può esistere una
democrazia fondata sui “migliori”?
Il ritorno del
saggio del sociologo Michael Young
La grande
ingiustizia di una società meritocratica
Roberto Esposito
“Who defines
Merit?” – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside Higher
Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti statunitensi.
Una domanda,
tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche,
tecniche, finanziarie.
Già posta,
all’inizio della nostra tradizione, da Platone a proposito del “governo dei
migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti,
politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.
Se il merito è
il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità
e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo?
Quanto, di esso,
va attribuito al talento naturale e quanto all’impegno?
E come valutare
il condizionamento sociale sia di chi opera sia chi giudica?
Che rapporto
passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra meritocrazia e
democrazia?
Un risoluto
antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia
una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla
riedizione del brillante libro del sociologo inglese Michael Young – già membro
del partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali – dal titolo L’avvento della meritocrazia.
Scritto nel 1958
nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di Orwell e di
Huxley, The Rise of the Meritocracy
si presenta come un saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una
lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno
Unito.
Debellato il
nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora legata ai privilegi di
nascita, e preparato da una serie di riforme della scuola, nel nuovo regime si
assegnano le cariche solo in base al merito ed alla competenza.
Tutto bene
dunque?
E’ il sogno, che
tutti condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente
selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti?
Bastano le
pagine iniziali – che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”,
contrapposti al “Partito dei tecnici” – per manifestarci, insieme a sinistri
richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore.
Che è
ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che egli finge
di celebrare.
Sorprende che
alcuni lettori, come Roger Abravanel, consigliere politico del ministero
dell’Istruzione dell’ex governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco,
prendendo nel suo Meritocrazia (Garzanti,
2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena
velato da qualche riserva.
Del resto, per
dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della propria
opera, sul Guardian del 19 giugno del
2001, l’autore accusò Tony Blair di aver preso in positivo un paradigma, come
quello di meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali?
Essenzialmente
quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il filosofo
John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle
condizioni fortuite ereditate alla nascita – classe sociale, etnia, genere –
che si vorrebbero non prendere in considerazione.
Certo, si sostiene,
esse vanno integrate con qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura.
Ma è evidente
che queste non sono indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto
sociale in cui maturano, come già sosteneva Rousseau.
E come Marx
avrebbe ancora più nettamente ribadito, commisurando i beni da attribuire a
ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un
secondo vantaggio, di tipo sociale, che già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma l’elemento
ancora più apertamente distopico – tale da rendere la società meritocratica da
lui descritta uno scenario da incubo – del racconto di Young è il criterio di
misurazione del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di
intelligenza (Q.I.).
Esso, rilevato
dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo
genetico diventa definibile ancora prima della nascita.
In questo modo
si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo
nato.
Se egli è adatto
a un lavoro intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel
percorso scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle
“pecore”, il “grano” dalla “pula”.
Una volta
definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui,
si eviterà il risentimento degli svantaggiati.
Essi non
potranno più lamentarsi di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo
sono.
Registrato il
Q.I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una
volta per tutte.
Coloro che, a
differenza dei più meritevoli, passeranno la vita a svuotare bidoni o a
sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio status e forse persino ne godranno.
A questa felice
società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di
ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una
scuola iperselettiva, contro la “fede cieca nell’educazione della maggioranza”;
poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnico-scientifico;
infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque
retrocessi a funzioni sempre più umili.
Il risultato
complessivo è la sostituzione dell’efficienza della giustizia e la riduzione
della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile
per i ceti più abbienti.
Il punto di
vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si
riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano da progetto di
riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una
funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica
espressione.
Il fine
dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli “individui a lenta
maturazione”, dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini
secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per
questo meno degno degli altri.
LA REPUBBLICA
Venerdì 12
dicembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento
Don Milani, Mario Lodi, Gianfranco Zavalloni: alberi saldi, radici antiche. Dall'albero antico ne può nascere uno nuovo: lascia qui un tuo commento a questo post.