Mauro Boarelli
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La meritocrazia è sulla bocca di
tutti, a destra come a sinistra. In una società come quella italiana, dove
l’assenza di “merito” incancrenisce ogni articolazione della vita sociale e
svilisce aspirazioni, competenze, passioni e idee, quale cittadino –
indipendentemente dalle idee politiche professate – potrebbe essere
pregiudizialmente ostile verso questo termine? Eppure è un termine ambiguo.
Muta di senso a seconda di chi lo usa, ma al tempo stesso custodisce un
insieme di significati non negoziabili che dovrebbero indurre a maneggiarlo
con prudenza. Come ogni parola, anche questa non è neutrale. Va interrogata
alla ricerca del senso profondo e delle sue implicazioni.
Il lavoro di decodificazione è
facilitato dal fatto che, in questo caso, il vocabolo ha una paternità
accertata. Fu Michael Young a utilizzarlo per primo nel 1958 nel suo libro The
Rise of Meritocracy 1870-2033 (L’avvento della meritocrazia),
tradotto in italiano nel 1962 dalle edizioni di Comunità di Adriano Olivetti.
Sociologo e attivista politico inglese, autore del manifesto che nel 1945
portò al successo elettorale il partito laburista e aprì la strada al governo
di Clement Attlee, Young scelse il filone della letteratura utopica (e in
questo caso si tratta di un’utopia negativa) per raffigurare gli esiti
nefasti provocati in modo solo apparentemente paradossale dalla volontà di
abolire i privilegi della nascita e della ricchezza. La narrazione è affidata
a un sociologo, entusiasta paladino della “meritocrazia” e critico ironico
delle posizioni di coloro che si ostinano a frenare l’avvento definitivo del
nuovo ordine. Dietro quell’ironia c’è Young, che insinua nel lettore una
serie di dubbi attraverso le lenti deformanti del suo detrattore. Il racconto
si snoda nel corso di un secolo e mezzo, il lungo periodo nel quale alcune
riforme fondate sull’eguaglianza delle opportunità – in particolare nel campo
dell’istruzione – promuovono una selezione basata esclusivamente
sull’intelligenza. Uno degli assi portanti del cambiamento è rappresentato
dalla misurazione precoce delle capacità, ispirata allo studio dei tempi e
dei movimenti introdotto dai fautori dell’organizzazione scientifica del
lavoro, a partire da Taylor. Questa metodologia selettiva trasforma
gradualmente il sistema scolastico. L’istruzione non è più impartita a tutti
allo stesso modo, ma viene differenziata. I bambini sono indirizzati verso
scuole diverse, organizzate gerarchicamente sulla base delle capacità
individuali. Gradualmente, l’aristocrazia di nascita viene sostituita
dall’“aristocrazia dell’ingegno”, e la stratificazione sociale si fa ancora
più netta, fino a che le tensioni create dal nuovo sistema sociale sfociano –
nel 2033 – in una rivolta delle classi inferiori.
L’ordine meritocratico è fondato
sulla crescita economica: “La capacità di aumentare la produzione,
direttamente o indirettamente, si chiama ‘intelligenza’ (...)” (p. 173). La
canalizzazione dei bambini nel sistema di istruzione è precoce e rigida,
l’educazione delle intelligenze è sostituita dalla loro misurazione e
classificazione: “Gli uomini (…) si distinguono non per l’eguaglianza, ma per
l’ineguaglianza delle loro doti. (…) A che pro abolire le ineguaglianze
nell’istruzione se non per rivelare e rendere più spiccate le ineluttabili
ineguaglianze della natura?” (p. 122) E ancora: “L’assioma del pensiero
moderno è che gli individui sono ineguali: e da esso discende il precetto
morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita proporzionata alla
sua capacità” (p. 123). L’intelligenza che viene incoraggiata è
un’intelligenza utilitaristica, pratica, misurabile, e questa misurazione
riproduce l’organizzazione e le gerarchie del modello industriale.
Michael Young aveva scritto un
libro contro la meritocrazia, si è ritrovato a essere considerato il
suo teorico. Il termine da lui coniato è entrato nel vocabolario corrente e
in quello politico con un’accezione positiva, ed è stato usato in modo
acritico anche dalle forze politiche di sinistra. Poco prima di morire, Young
affidò alle pagine di un giornale inglese una caustica lettera aperta a Tony
Blair in cui accusava il leader laburista di averlo messo al centro dei suoi
discorsi pubblici senza comprenderne i pericoli, e lo invitava a smettere di
usarlo a sproposito (Down with Meritocracy, in “The Guardian”, 29
giugno 2001). Inutile dire che non fu ascoltato. Il progressivo
capovolgimento di senso della parola da lui inventata è stato inarrestabile.
Come spesso accade, questo slittamento è il risultato di una combinazione tra
letture superficiali e stravolgimenti pianificati. Per cogliere questi
meccanismi in azione è utile soffermarsi sul testo di Roger Abravanel
intitolato Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il
talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008).
Il libro è interessante non tanto per la riflessione teorica (quasi
inesistente) né per le proposte (davvero deboli), ma perché presenta una
efficace sintesi di tutte le argomentazioni dei sostenitori del modello
meritocratico.
Abravanel non comprende la
struttura narrativa del libro di Young. Vi scorge due narratori, uno “giovane
ed entusiasta, che illustra i vantaggi della meritocrazia”, l’altro – che
coinciderebbe con l’autore – “più vecchio e più saggio, che di tanto in tanto
lancia qualche ‘siluro’ ironico” (p. 54). Forse colto (sia pure fugacemente)
dal dubbio che Young non abbia scritto esattamente ciò che a lui piacerebbe
leggere, inventa una scissione narrativa inesistente per sterilizzare i dubbi
che emergono anche dalla lettura più superficiale del libro e confinarli
nella mente di un anziano e pedante osservatore che paventa pericoli
immaginari e rischia con il suo allarmismo di offuscare lo splendore della
meritocrazia. Partendo da questi presupposti, Abravanel capovolge
completamente le tesi del sociologo inglese, e le trasforma nel primo
manifesto dell’ideologia meritocratica. La selezione precoce in ambito
scolastico fondata sulla misurazione – tra gli obiettivi principali della
polemica di Young – diventa uno dei fondamenti positivi del nuovo modello
sociale: “Sessant’anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno
portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano
prevedibili, senza che sia necessario attendere la ‘selezione naturale’ della
società” (p. 65). Abravanel non si interroga sul fatto che la valutazione
possiede una dimensione sociale e – di conseguenza – non è neutrale, come ha
evidenziato Nadia Urbinati (Il merito e l’uguaglianza, in “la
Repubblica”, 27 novembre 2008). Aggira il problema liquidando in poche righe
– con lo stile apodittico che caratterizza il libro – l’intero patrimonio
della riflessione pedagogica internazionale a favore di teorie
pseudoscientifiche riassunte con approssimazione e delle quali non cita quasi
mai la fonte, per indirizzarsi con sicurezza verso una conclusione
estremamente chiara (e cinica) dal punto di vista ideologico: “(…) ricerche
approfondite evidenziano come la performance di un bambino di sette anni in
lettura/scrittura offra un’ottima previsione del suo reddito a trentasette
anni” (p. 83). In fondo è questo il succo del ragionamento dei
“meritocratici”: la crescita economica come unico metro di giudizio (senza
alcun interrogativo sulle componenti immateriali di tale crescita e sulla
necessità di altri parametri di valutazione del benessere sociale), e il
premio economico alla classe dirigente, ovvero ai depositari del merito. Il
collante è, inevitabilmente, il mercato: “La società meritocratica è
profondamente basata sugli incentivi per gli individui a competere, che sono
l’essenza del libero mercato” (p. 67). Inutile rimarcare che ancora una volta
il “libero mercato” viene usato come feticcio senza riflettere sulla sua
esistenza reale e sulle conseguenze sociali derivanti da questa costruzione
ideologica. Su un punto, però, l’autore si esprime con candida sincerità,
senza troppi giri di parole: “Nelle società meritocratiche la diseguaglianza
è giustificata dall’ideologia della meritocrazia (…)” (p. 62). E ancora: “(…)
nelle società meritocratiche la disuguaglianza sociale conta molto meno della
mobilità sociale” (p. 109). Da qui a teorizzare la necessità di un sistema
educativo diseguale il passo è breve: “In genere si ritiene che per
assicurare eguaglianza di opportunità bisogna dare a tutti la stessa qualità
di istruzione (…). Questo luogo comune è profondamente errato: dando a tutti
la stessa educazione non si aumenta la mobilità sociale e il merito muore”
(p. 256). Di conseguenza, “(…) è necessario passare dall’Istruzione
all’Educazione, da ‘istruire tutti allo stesso modo’ a ‘educare secondo il
potenziale di ciascuno’, dall’eguaglianza del livello di istruzione alle pari
opportunità nel ricevere la migliore educazione” (p. 314).
I ragionamenti di Abravanel e
quelli dell’anonimo narratore di Rise of Meritocracy si sovrappongono
perfettamente. Young aveva visto giusto, le sue non erano solo fantasie.
Soprattutto, aveva intuito che le argomentazioni dei fautori della
meritocrazia puntano diritto al cuore della democrazia. “La meritocrazia è
(…) l’esatta antitesi della democrazia”, scriveva Cesare Mannucci nella
prefazione all’edizione italiana del libro di Young, perché la scuola
gerarchica su cui è fondato quel modello non è immaginata per insegnare la
pluralità di culture e valori, ma per anticipare e inculcare le
stratificazioni del sistema produttivo e finalizzare il sapere allo sviluppo
economico. è un nodo esplorato anche da Bruno Trentin, che in un denso e
lucido articolo (A proposito di merito, in “l’Unità”, 13 luglio 2006)
evidenziava come il concetto di merito sia sinonimo di obbedienza e dovere,
perché presuppone una legittimazione discrezionale da parte di qualcuno che
occupa una posizione gerarchica superiore, o esercita un potere politico.
Criticando duramente la subalternità culturale della sinistra verso un
concetto proprio del liberismo autoritario e la confusione dei linguaggi che
ne discende, Trentin rivendicava il primato della conoscenza sul merito. Solo
il sapere rappresenta un criterio equo di selezione del valore individuale, e
quindi occorre renderlo disponibile per tutti. In questo modo ciascun
individuo sarà in grado di governare il proprio lavoro. è una prospettiva che
concilia libertà e conoscenza, e lo fa per tutti, non solo per una ristretta
élite tecnocratica.
Eguaglianza e democrazia. Ecco
cosa mette in gioco il concetto di meritocrazia. Non esprime il riscatto
dall’ineguaglianza delle opportunità, ma il suo contrario. Non si tratta di
una sterile disquisizione lessicale. Meritocrazia è una parola densa
di implicazioni sociali, una parola che traccia un discrimine e impone di
scegliere da che parte stare, senza giocare sulle ambiguità, senza camminare
sul filo dei mille significati possibili laddove ce ne sono in realtà ben
pochi, chiari, coerenti, connotati ideologicamente e perfettamente
riconoscibili.
LO
STRANIERO
n.
118 – Aprile 2010
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Il blog di "C'è speranza se accade @", associazione di donne e uomini che intendono far conoscere e mettere in comune i pensieri e le buone pratiche di cooperazione educativa in Italia e altrove.
sabato 13 dicembre 2014
PENSIERINI CRITICI I
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