sabato 13 dicembre 2014

PENSIERINI CRITICI II


Le idee
Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”?
Il ritorno del saggio del sociologo Michael Young

La grande ingiustizia di una società meritocratica
Roberto Esposito



“Who defines Merit?” – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti statunitensi.
Una domanda, tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche, tecniche, finanziarie.
Già posta, all’inizio della nostra tradizione, da Platone a proposito del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti, politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.
Se il merito è il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo?
Quanto, di esso, va attribuito al talento naturale e quanto all’impegno?
E come valutare il condizionamento sociale sia di chi opera sia chi giudica?
Che rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione del brillante libro del sociologo inglese Michael Young – già membro del partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali – dal titolo L’avvento della meritocrazia.
Scritto nel 1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno Unito.
Debellato il nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme della scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al merito ed alla competenza.
Tutto bene dunque?
E’ il sogno, che tutti condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti?
Bastano le pagine iniziali – che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”, contrapposti al “Partito dei tecnici” – per manifestarci, insieme a sinistri richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore.
Che è ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che egli finge di celebrare.
Sorprende che alcuni lettori, come Roger Abravanel, consigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo Meritocrazia (Garzanti, 2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena velato da qualche riserva.
Del resto, per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony Blair di aver preso in positivo un paradigma, come quello di meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali?
Essenzialmente quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle condizioni fortuite ereditate alla nascita – classe sociale, etnia, genere – che si vorrebbero non prendere in considerazione.
Certo, si sostiene, esse vanno integrate con qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura.
Ma è evidente che queste non sono indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come già sosteneva Rousseau.
E come Marx avrebbe ancora più nettamente ribadito, commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un secondo vantaggio, di tipo sociale, che già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma l’elemento ancora più apertamente distopico – tale da rendere la società meritocratica da lui descritta uno scenario da incubo – del racconto di Young è il criterio di misurazione del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q.I.).
Esso, rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo genetico diventa definibile ancora prima della nascita.
In questo modo si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo nato.
Se egli è adatto a un lavoro intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle “pecore”, il “grano” dalla “pula”.
Una volta definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il risentimento degli svantaggiati.
Essi non potranno più lamentarsi di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono.
Registrato il Q.I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una volta per tutte.
Coloro che, a differenza dei più meritevoli, passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio status e forse persino ne godranno.
A questa felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la “fede cieca nell’educazione della maggioranza”; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnico-scientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni sempre più umili.
Il risultato complessivo è la sostituzione dell’efficienza della giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.
Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano da progetto di riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione.
Il fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli “individui a lenta maturazione”, dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per questo meno degno degli altri.

LA REPUBBLICA
Venerdì 12 dicembre 2014

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