martedì 16 dicembre 2014

IL PRINCIPIO DI COOPERAZIONE

Rifiutare la competizione.
Quest'idea sembra una pura sciocchezza. Come si può prescindere dalla coazione universale a competere? La cosa risulta semplicemente impensabile. Eppure, la chiave di ogni vera svolta verso un'economia democratica, che sia capace di dare sicurezza alle condizioni di vita di tutti e sia compatibile con il mondo naturale, sta nel passaggio dal principio di competizione al principio di cooperazione.
Trattandosi di un cambiamento molto profondo, che sfida le ovvietà della mentalità corrente, bisogna abituare con gradualità lo sguardo a questa idea.
Se si comincia a pensare diversamente, poco a poco si aprono scenari inediti e concreti.

Il primo passo sta nel leggere l'evidenza: la crisi, la fame, i cataclismi sociali e i frutti velenosi dell'aggressione alla natura dimostrano che la civiltà della competizione è dannosa, insostenibile e ingiusta perché, come un idolo sanguinario, esige i sacrifici umani.
Essa si fonda infatti sul presupposto che debbano sempre esserci quelli che sono sconfitti, altrimenti non c'è progresso. Ma se l'economia deve garantire le basi materiali della società, scongiurare la miseria, rispettare la libertà di chiunque e servire il bene comune, come dice la Costituzione all'articolo 41, perché si deve alimentare l'interesse al fatto che ogni volta ci sia chi resta travolto?

Nella logica della competizione si va avanti solo se c'è chi rimane indietro.
Al contrario, nella logica dell'economia di cooperazione si avanti solo se si procede come comunità nazionale e, più ampiamente, come umanità.
Si esce dalla crisi solo se si esce insieme dalla crisi.
E infatti nella gestione dei servizi - dalle scuole agli ospedali, dai trasporti agli enti locali - non ha senso una gara per cui alla fine si constata che alcuni funzionano meglio e altri peggio.
Il fine vero sta nel fare in modo che tutti gli organismi di servizio raggiungano le migliori prestazioni possibili perché la giusta risposta ai bisogni dei cittadini è un diritto che deve valere ovunque per chiunque.

Nella mentalità corrente non si riesce a concepire un miglioramento che sia condiviso e non selettivo, come se la migliore qualità di una scuola, ad esempio, debba essere misurata dal fatto che un'altra scuola offre servizi di livello inferiore.
La qualità dei servizi va invece misurata dal criterio che individua quale sia la migliore risposta ai bisogni che i servizi stessi devono assicurare.
Dopo di che bisogna sviluppare una politica di adeguamento di ogni struttura di servizio a quel livello di risposta.

Se d'altra parte ci riferiamo all'impresa privata, la possibilità di orientarsi al principio di cooperazione comincia ad apparire meno assurda di quanto sembri a prima vista non appena si abbandona la pratica sciagurata della delocalizzazione.
Essa sottrae il lavoro alla comunità territoriale da cui un'azienda proviene non per portare il lavoro altrove, ma per perpetuare all'infinito lo sfruttamento lì dove i diritti umani e sindacali sono negati.
Non si vuole vedere che nella delocalizzazione si attua questa trasformazione: si toglie il lavoro da un territorio e, mentre si impianta la struttura produttiva all'estero, esso è già diventato sfruttamento, non è più veramente lavoro.

Proviamo invece a pensare che le aziende ritrovino il loro legame vitale con i territori e le comunità locali: saranno sollecitate a migliorare le condizioni del lavoro e ad assumere la responsabilità sociale d'impresa nel quadro di una convergenza dei soggetti privati e di quelli pubblici nella cura del bene comune economico.

Certo, questa svolta diventa concreta se il compito di attuarle non viene scaricato sulle spalle delle singole imprese, ma viene assunto anzitutto dai governi nell'impegno a costruire efficaci regole giuridiche internazionali che consentano ovunque la scelta dell'economia della cooperazione, ripudiando il progetto della globalizzazione. In questo quadro internazionale le economie più deboli potranno organizzarsi e fiorire.

Questi e altri passi verso la guarigione dell'economia avranno luogo, con effetti profondamente benefici, se sempre più persone, comunità e istituzioni avranno la saggezza ed il coraggio di rifiutare la competizione come logica e stile di vita, preferendo piuttosto la responsabilità, l'automiglioramento e l'armonia tra interesse privato e collettivo.

La forma fisiologica di competizione che deve restare ed essere vissuta ogni giorno è quella che ogni soggetto singolo o collettivo deve affrontare in se stesso per scegliere il bene comune, la giustizia e l'umanità invece che il male.

In: DAL CAPITALISMO ALLA GIUSTIZIA. Altreconomia Edizioni. Milano, 2012

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.

Nessun commento:

Posta un commento

Don Milani, Mario Lodi, Gianfranco Zavalloni: alberi saldi, radici antiche. Dall'albero antico ne può nascere uno nuovo: lascia qui un tuo commento a questo post.